MARCO PALEARI

Il mio lavoro prende come modello certe iconografie della storia della pittura italiana e più in generale europea (in particolare il Rinascimento e il Manierismo) compiendo una rivisitazione contemporanea delle sue forme attraverso la realizzazione di tableu vivant mediante l’azione del ricalco a matita. Il processo pittorico è perciò suddiviso in due step consequenziali: un disegno veloce e incisivo in cui viene annullata qualsiasi pulsioni virtuosistica e con cui delineo le forme degli oggetti e delle persone che vengono disposte sopra o davanti alla tela, ottenendo sagome generiche ma al contempo descrittive di una presenza/assenza; mi piace intenderle come la testimonianza di un passaggio. Il secondo step del processo è invece contraddistinto dall’irrompere lento e meditato del tratteggio del disegno e della pittura all’interno di queste forme, con lo scopo di conferire ad esse una certa forma di vita; una sorta di attivazione delle sagome. Nella costruzione di questi tableu vivant l’azione del ricalco priva l’immagine della sua impostazione prospettica in favore di una messinscena bidimensionale e in scala 1:1 rispetto all’osservatore. È una riflessione sulle forme immutabili dell’arte compiuta attraverso affioramenti memonici di forme iconiche. Una rilettura di quelli che chiamo “momenti pittorici fondamentali”, come la pietà, la deposizione, varie allegorie e le scene campestri. Ma è anche una riflessione sulla struttura stessa del supporto quadro, immaginando un proseguimento dei segni pittorici al di fuori dei suoi limiti convenzionali dati dalla superficie finita della tela e dalla struttura del telaio. Le composizioni non sono espresse con una pittura tout court, ma da una serie di frammenti interdipendenti che invitano lo sguardo dell’osservatore ad una lettura graduale e settoriale della totalità del quadro.

UN GRAN TEATRO PANIGIANO - Un testo di Vittoria Caprotti

Lo studio di Marco Paleari, con tutto ciò che lì entra e da lì esce: quadri e persone e strumenti del mestiere e oggetti quotidiani e frasi, è un gran teatro. Anzi, rubando e riplasmando il celebre titolo di Testori, quello di Paleari è un gran teatro pianigiano: per collocazione e per vocazione. Nei quadri di Paleari – immaginati e realizzati a Seregno, nell’hinterland milanese, in piena Pianura Padana – il tempo e lo spazio sono condensati come su un palco. Jacopo Masini ha scritto che “In pianura il tempo è come lo spazio, forse, che vai e vai ma sembra di essere sempre lì e non è mica un male”. Sembra di essere sempre lì: stretti tra figure che si sovrappongono nello spazio della tela, talvolta trasbordando, ma senza davvero sapere dove andare; schiacciati tra secoli di Storia dell’Arte compressi come file .zip che tocca, poi, a noi estrarre per poterli osservare nella loro forma originale.
Nel teatro di Paleari si racconta dell’artista e della Storia in cui vive, la Storia dell’Arte. L’artista è al tempo stesso regista e attore primario, non solo compone e dirige le scene, ma le abita. È capillare la presenza degli autoritratti di Paleari nei quadri: i suoi volti sono costantemente inseriti in sagome anonime ed eterogenee, sono maschere uniformanti. È un raddensamento – inconsciamente dettato da quel genius loci pianigiano –, un insistere sul sé per poter conoscere ciò che è altro. L’artista, essendo protagonista, si mette in mostra e in posa, ma chi lo osserva è ancora e sempre sé stesso. Diventa, così, un disegnatore-attore che è al tempo stesso braccio destro e servo del disegnatore-regista. Il disegnatore-attore è un Paleari frammentato: é sotto gli occhi di tutti, sclerotizzabile, sostituibile. E, infatti, l’autoritratto è solo un mezzo: può in qualunque momento essere lasciato da parte a favore del ritratto di un amico o di un passante, in ogni caso una comparsa, perché a teatro esistono gli attori sostituti e anche loro – seconde scelte – devono saper abitare il personaggio come il prescelto, come l’attore di prima fascia. Del lavoro di Paleari, dunque, “si può dire che sia una grande opera di autoritrattistica, ma non mi piace pensarlo”: questa scissione tra il detto e il pensato è la stessa che c’è tra il disegnatore-attore e il disegnatore-regista. La visibile immediatezza del primo è soltanto una delle possibili forme dietro cui si cela il secondo. Questa continua frattura, questa insistente doppiezza, questa possibile sostituzione è esaltata dalla serie – o forse è un polittico scomposto? – Sharing a moment (2023). Gli attori che, a coppie, abitano ognuno dei quattro quadri si avvicinano e si allontanano reciprocamente, uno è specchio dell’altro, si somigliano tutti, sono forme simili, ma non uguali dell’idea del regista il quale li mette alla prova, li fa scontrare muovendoli su uno sfondo che di volta in volta aggiusta in qualche dettaglio, in una sessione di prove che sembra durare secoli.
Dai dichiarati modelli di Deposizione (dal Pontormo) e Rosso scala C – grandi quadri del 2021 che, nel loro essere omaggi-riscritture, riportano alla mente i tableaux vivants de “La Ricotta” pasoliniana, affondando sempre più il coltello della teatralità – fino a L’intuizione del fuoco (2023) che fiuta e, poi, scompagina Manet, la Storia dell’Arte è l’altra protagonista del teatro di Paleari. Se gli attori sono sempre sostituibili, se l’artista può talvolta uscire di scena, anche la Storia dell’Arte dev’essere messa alla prova ed eventualmente scalzata. Compianto su un morto a caso (2023) fa esattamente questo: una delle iconografie più riconoscibili e diffuse della Storia dell’Arte viene svuotata del suo senso tradizionale, mostrandone la leziosità. Scavata e ridotta a pura forma, il disegnatore-regista può nuovamente riempirla dei suoi perché contemporanei.

La teatralità in Paleari è permeante nel suo essere non solo messa in scena di qualcosa, ma anche rivelazione fisica e materica del disegnatore-regista. Le orme delle sue scarpe sulle tele, come in Rosso Scala C; il suo colorato ingresso sul palco in Velleità (2023) per fare ordine tra le comparse solo disegnate, accompagnato dalla fida asta rossa con la punta di grafite che è l’effettivo strumento disegnativo e da altri oggetti di scena che davvero esistono nello studio dell’artista: la preparazione della scena è essa stessa la scena. L’asta grafitica, in quanto mezzo fondamentale della pratica artistica, ricorre mutando, come ogni oggetto prestato dalla vita vissuta alla finzione: diventa, così, un giavellotto dimenticato da qualche cavaliere nel medievaleggiante Trovatore Troviere (2022) oppure una lancia per lo scontro di Blu – stagione (2023). Il disegno – in quanto gesto basilare e basale su cui costruire – cattura l’occhio anche in opere cromaticamente caricate come Scena campestre (calpestando la terra e i suoi elementi) (2023). I piedi, il tubo blu, il mattoncino di Lego rosso e il seggiolino giallo rivelano la traccia disegnata nel loro scostarsi dalla stessa e con questo scostamento affermano il loro predominio, il loro calpestare ciò che li circonda e che è solo colore, senza forma.
In “Sul disegnare”, John Berger scriveva che “L’apparizione della figura conta molto più dell’atto di disegnare” e le figure di Paleari realmente appaiono: inafferrabili e fantasmatiche, è la polvere di grafite a farle emergere. Nel corso del tempo – benché siano passati solo un paio d’anni – il grigio della matita ha lasciato una traccia cromatica sempre maggiore: dall’impiego di linee di contorno omogeneamente sottili e di una limitata scala di grigi, Paleari è ora giunto a dei forti contrasti chiaroscurali, esemplificati dalla serie dei Tondi (2023) dove la trama candida della tela si scontra con tratti spessi, netti, neri e fosche stratificazioni di grafite. All’inspessimento della trama disegnativa si associa un sovraffollamento nuovo di figure: il grande formato delle opere del 2021, come Vocazione al manierismo, dove tutti i corpi, benché gracili e indaffarati, riescono a respirare, ha progressivamente fatto spazio a tele asfissianti. È un progressivo trionfo della grafite e del disegnatore, una presa di consapevolezza crescente da parte di Paleari.
Tuttavia, questo traboccare di corpi, di torsioni e di chiaroscuri, un traboccare che ha un’eco manieristica o barocca, cela, in realtà, un’aspirazione storico-artistica opposta. I piani scalati anti-prospettici, le membra slegate, l’impossibilità spaziale, l’horror vacui a cui Paleari è approdato, parlano una lingua ben più antica, con accenti medievali e bizantini. La mistificazione, questa mistificazione, è possibile in quanto teatro: le sagome anonime tracciate a matita attendono di essere vivificate dall’artista come gli attori da sempre, per sempre attendono di sapere se saranno la Medea di Euripide o il Misantropo di Molière o, forse, per rimanere nei dintorni dello studio di Paleari, l’Erodiàs di Testori. Tuttavia, nemmeno l’artista-regista conosce a priori l’esito delle sue operazioni: il disegno è improvvisato, segue l’illuminante errore della grafite che ha lasciato traccia di sé dove Paleari aveva forse immaginato il bianco della tela. Nel grande teatro pianigiano, dove il tempo e lo spazio sembrano essere sempre gli stessi e il Medioevo è barocco, è l’inaspettato a creare le immagini.